PRIMO CAPITOLO FALLEN!, ecco a voi..

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puzzoletta182
view post Posted on 4/1/2011, 22:23




PER LA VOSTRA GIOIA IL PRIMO CAPITOLO DEL LIBRO ' FALLEN' DI LAUREN KATE


PROLOGO:
IN PRINCIPIO
HELSTON, INGHILTERRA,
SETTEMBRE 1854
Verso mezzanotte, infine, gli occhi presero forma. Lo sguardo era felino, determinato e incerto allo stesso tempo... prometteva guai. Sì, erano proprio i suoi occhi. Si aprivano sotto la bella fronte aggraziata, a pochi centimetri dalla scura cascata dei capelli.
Tenne il foglio davanti a sé, per valutare i progressi. Era difficile lavorare senza di lei, ma non avrebbe mai potuto disegnarla in sua presenza. Da quando era arrivata da Londra - no, da quando l'aveva vista per la prima volta - aveva dovuto preoccuparsi di tenerla sempre a distanza.
La sentiva ogni giorno più vicina, e ogni giorno era più difficile del precedente. Ecco perché sarebbe partito il mattino dopo. Americhe, India... non lo sapeva e non gli importava. Dovunque fosse finito, sarebbe stato più facile che restare lì.
Si chinò di nuovo sul disegno. Corresse con il pollice la sbavatura del carboncino sulle labbra carnose, sospirando. Quel foglio inanimato, impostore crudele, era l'unico modo che aveva per portarla con sé.
Poi, raddrizzandosi sulla sedia di pelle della biblioteca, lo sentì. Quel lieve calore sulla nuca.
Lei.
La sua sola vicinanza gli dava una sensazione insolita, simile al calore emanato dal legno che si sfalda in cenere in un fuoco. Lo sapeva senza voltarsi: Lei era lì. Appoggiò il ritratto a faccia in giù sui libri che aveva in grembo, ma non poteva sfuggirle.
Lo sguardo gli cadde sul divano color avorio del salotto, dove poche ore prima lei era apparsa inaspettatamente, quando i suoi amici ormai erano già arrivati, in un abito di seta rosa, per applaudire la bella esibizione al clavicembalo della figlia maggiore del padrone di casa. Scoccò un'occhiata alla stanza, e poi alla veranda oltre la finestra, dove il giorno prima lei gli si era avvicinata furtiva, reggendo un mazzolino di peonie selvatiche bianche. Era ancora convinta che l'attrazione per lui fosse innocente, che i loro frequenti incontri nel gazebo fossero solo... liete coincidenze. Quanto era ingenua! Non le avrebbe mai raccontato la verità: quello era il suo segreto.
Si alzò e si voltò, lasciando i disegni sulla sedia. Ed eccola lì, vestita di bianco, appoggiata alla tenda di velluto rossa. Le nere trecce erano sciolte. Aveva lo stesso sguardo che lui aveva disegnato così tante volte. Le sue guance erano accese. Era arrabbiata? Imbarazzata? Desiderava saperlo, ma non poteva permettersi di chiederlo.
«Cosa ci fate qui?» Sentì l'acredine nella propria voce, e si pentì di tanta asprezza, sapendo che lei non avrebbe mai capito.
«Non... non riuscivo a dormire» balbettò lei, avvicinandosi al fuoco e alla sua sedia. «Ho visto la luce accesa nella vostra stanza e poi...» tacque, guardandosi le mani «... il vostro baule fuori dalla porta. Siete in partenza?»
«Ve l'avrei detto...» e s'interruppe. Non doveva mentire: non aveva mai avuto intenzione di metterla a parte dei suoi piani. Avrebbe solo reso le cose più difficili. Si era già spinto troppo oltre, nella speranza che quella volta sarebbe stato diverso.
Lei si avvicinò, e il suo sguardo si posò sull'album. «Mi stavate facendo un ritratto?»
La sorpresa nella sua voce gli ricordò l'abisso di conoscenza che li divideva. Dopo tutto il tempo trascorso insieme nelle ultime settimane, lei non aveva la più vaga idea di che cosa si nascondesse dietro quell'attrazione.
Era un bene, o, quantomeno, era meglio così. Negli ultimi giorni, da quando lui aveva deciso di partire, aveva fatto di tutto per
tenersi lontano da lei. Riuscirci aveva richiesto un tale sforzo che, non appena si era ritrovato da solo, aveva dovuto cedere al desiderio represso di ritrarla. Aveva riempito l'album di bozzetti del suo collo arcuato, della sua clavicola marmorea, del nero abisso dei suoi capelli.
Ora riguardava i disegni. Ciò che provava non era vergogna per essere stato sorpreso a ritrarla, ma qualcosa di molto peggio. Un brivido gelido lo pervase al pensiero che quella scoperta - la manifestazione fisica di ciò che lui provava - l'avrebbe distrutta. Avrebbe dovuto essere più cauto. Cominciava sempre allo stesso modo.
«Latte caldo con un cucchiaio di melassa» mormorò, continuando a darle le spalle. Poi aggiunse, triste: «Vi aiuterà a dormire.»
«Come fate a saperlo? E' proprio quello che mia madre...»
«Lo so» disse lui, voltandosi verso di lei. Non era sorpreso dallo stupore nella voce di lei, eppure non poteva spiegarle perché, o dirle quante volte in passato, al calar delle tenebre, le aveva preparato la medesima bevanda, o l'aveva tenuta fra le braccia finché non si era addormentata.
Sentì il tocco di lei come fuoco attraverso la camicia, sentì la sua mano leggera sulla spalla, e trattenne il respiro. Non si erano ancora toccati in questa vita, e il primo contatto lo lasciava sempre senza fiato.
«Rispondetemi» sussurrò lei. «State partendo?»
«Sì.»
«Allora portatemi con voi» disse, precipitosa. E in quel momento, lui la vide trarre un profondo respiro, come se si fosse pentita del suo appello. Dal corrucciarsi della fronte riusciva a cogliere le emozioni che si susseguivano in lei: prima l'impeto, poi lo sconcerto, infine la vergogna per la propria sfrontatezza. Era sempre così, e troppe volte in passato lui aveva commesso l'errore di consolarla in quel preciso momento.
«No» sussurrò allora, ricordando... ricordando sempre... «Salperò domani. Se tenete a me, non dite un'altra parola.»
«Se tengo a voi» ripetè lei, come parlando a se stessa, «io... io vi amo...»
«No.»
«Devo dirvelo. Io... io vi amo, ne sono certa, e se voi partite...»
«Se parto, vi salverò la vita.» Parlò lentamente, cercando di raggiungere la parte di lei in grado di ricordare. Se anche ci fosse stata, dov'era sepolta? «Certe cose sono più importanti dell'amore. Non capirete, ma dovete fidarvi di me.»
Gli occhi di lei lo trafissero. Fece un passo indietro, incrociò le braccia sul petto. Anche di questo lui era responsabile: quando le elargiva le proprie verità dall'alto riusciva sempre a scatenare il suo lato sprezzante.
«Intendete dire che ci sono cose più importanti di questo?» lo sfidò lei, afferrandogli le mani e portandosele al cuore.
Oh, poter essere lei e non sapere che cosa stava per succedere! O almeno essere più forti di così, e riuscire a fermarla. Se non l'avesse fermata, lei non avrebbe mai capito, e il passato si sarebbe ripetuto ancora, torturandoli senza fine.
A quel tocco, al calore familiare della sua pelle, lui gettò indietro il capo e gemette. Cercava di ignorare quanto fosse vicina, quanto conoscesse bene la sensazione delle sue labbra sulle proprie, quanto fosse amara la consapevolezza che tutto questo dovesse finire. Ma le dita di lei cercavano le sue con tanta leggerezza... Riusciva a sentire il cuore di lei battere tumultuoso sotto l'abito.
Aveva ragione. Non c'era niente di più importante.
Non c'era mai stato. Stava per arrendersi e prenderla tra le braccia, quando colse il lampo nei suoi occhi. Come se avesse visto un fantasma.
Fu lei a ritrarsi, portandosi una mano alla fronte.
«Ho una sensazione stranissima» sussurrò.
No... Era già troppo tardi?
Lei socchiuse gli occhi come nel ritratto; si avvicinò di nuovo, e gli mise le mani sul petto, le labbra in attesa. «Penserete che sono pazza,
ma sarei pronta a giurare che sono già stata qui...»
Allora era davvero troppo tardi. Guardò in alto con un brivido: riusciva quasi a sentire l'oscurità discendere su di loro. Colse l'ultima occasione di afferrarla, di stringerla come aveva desiderato ardentemente per settimane.
Non appena le loro labbra si fusero, entrambi rimasero indifesi. Il sapore di caprifoglio sulla bocca di lei gli diede le vertigini. Più lei gli si stringeva, più lui sentiva contrarsi le viscere per l'emozione e l'angoscia di ciò che stava accadendo. La lingua di lei trovò la sua, e il fuoco tra loro divampò, più luminoso, più ardente, più feroce a ogni nuovo tocco, a ogni nuova esplorazione. Eppure niente di tutto questo era nuovo.
La stanza tremò. Un'aura prese a brillare attorno a loro.
Lei non si accorse di nulla, inconsapevole, ignara di tutto al di fuori di quel bacio.
Lui soltanto sapeva che cosa stava per accadere, quali oscuri guardiani stavano per precipitarsi sulla loro unione. Anche se ancora una volta non poteva modificare il corso degli eventi, lo sapeva.
Le ombre vorticarono sopra di loro, così vicine che lui avrebbe potuto toccarle. Così vicine che si chiese se anche lei riuscisse a sentire ciò che sussurravano.
Osservò la nuvola passare sul volto di lei. Vide, per un istante, una scintilla di comprensione brillare nei suoi occhi.
Poi non ci fu più nulla.

PRIMO CAPITOLO:
UNO
PERFETTI SCONOSCIUTI
Luce irruppe nell'atrio illuminato al neon della Sword & Cross School dieci minuti più tardi del dovuto. Un custode dall'ampio torace, guance rosse e un blocco per appunti stretto sotto un bicipite di ferro stava impartendo ordini, quindi Luce era già rimasta indietro.
«Allora ricordate: pillole, letti e spie» abbaiò il custode a tre studenti di cui Luce non riusciva a vedere il viso, perché le davano le spalle. «Ricordatevi le regole di base, e nessuno si farà male.»
Luce si infilò rapida nel gruppetto. Stava ancora cercando di capire se aveva compilato nel modo giusto la gigantesca pila di documenti, se quella guida dalla testa rasata era un uomo o una donna, se qualcuno poteva aiutarla a portare l'enorme sacca da viaggio, se i suoi genitori, dopo averla mollata lì, si sarebbero disfatti della sua amata Plymouth Fury non appena tornati a casa. Avevano minacciato di vendere la macchina per tutta l'estate, e ora avevano un motivo che nemmeno Luce poteva contestare: nella nuova scuola nessuno poteva tenere un'auto. Nel nuovo istituto correzionale, per l'esattezza.
Doveva ancora abituarsi a quella formula.
«Potrebbe, ehm, potrebbe ripetere?» domandò al custode. «Cos'era, pillole...?»
«Guarda un po' cosa ci porta il vento» ribatté la guida a voce alta.
Poi proseguì, scandendo piano: «Pillole. Se sei uno studente in terapia, qui è dove venire a prendere quello che ti serve per drogarti, restare sano di mente, respirare o quant'altro.»
Donna, si disse Luce, studiandola. Nessun uomo sarebbe stato tanto malizioso da usare un tono così dolciastro.
«Capito.» A Luce venne la nausea. «Pillole.»
Non era più sotto farmaci da anni. Dopo l'incidente di quell'estate il dottor Sanford - il suo analista a Hopkinton, nonché il motivo per cui i suoi genitori l'avevano spedita a scuola nel New Hampshire - aveva preso in considerazione di sottoporla nuovamente alla terapia farmacologica. Nonostante alla fine lei l'avesse convinto di essere quasi stabile, c'era voluto un mese in più di analisi per liberarsi di quegli orrendi psicofarmaci.
Ed ecco perché si era iscritta alla Sword & Cross con un mese di ritardo rispetto all'inizio dell'anno accademico. Essere quella nuova era già abbastanza brutto, ma questa volta c'era stata anche l'ansia di piombare nel bel mezzo di corsi in cui tutti gli altri si erano già ambientati. A giudicare dalla visita guidata della scuola, però, Luce non doveva essere l'unica appena arrivata.
Scoccò un'occhiata furtiva agli altri tre, in semicerchio attorno a lei. Nell'ultima scuola, Dover Prep, aveva conosciuto così la sua migliore amica, Callie. Tutti gli altri studenti in pratica erano cresciuti insieme, e a loro era bastato essere le uniche a non avere genitori o fratelli che avessero studiato lì. Ma poco dopo avevano scoperto di condividere la stessa passione per gli stessi vecchi film, soprattutto quelli con Albert Finney. Quando poi, sempre durante il primo anno (mentre guardavano Due per la strada), avevano scoperto che nessuna delle due riusciva a preparare i popcorn senza far scattare l'allarme antincendio, Callie e Luce erano diventate inseparabili. Finché... finché non erano state costrette a dividersi.
Accanto a Luce quel giorno c'erano due ragazzi e una ragazza. La ragazza sembrava facile da inquadrare: bionda e carina come in una pubblicità della Neutrogena, con unghie rosa pastello in tinta con la cartellina di plastica.
«Mi chiamo Gabbe» disse strascicando le parole, abbagliandola
con un gran sorriso che svanì con la stessa rapidità con cui era apparso, prima ancora che Luce potesse presentarsi. Più che la ragazza tipo che si aspettava di trovare alla Sword & Cross, quell'interesse passeggero le sembrò una versione del Sud delle ragazze di Dover. Luce non sapeva dire se fosse consolante o no, e nemmeno riuscì a immaginare che cosa ci facesse in un correzionale una ragazza del genere.
Alla destra di Luce c'era un ragazzo con i capelli corti castani, occhi castani e una spruzzata di lentiggini sul naso. Dal modo in cui evitava di guardarla, limitandosi a tormentarsi una pellicina del pollice, Luce capì che probabilmente era stordito e imbarazzato quanto lei.
Il ragazzo alla sua sinistra, invece, combaciava fin troppo bene con l'idea che Luce si era fatta di quel posto. Era alto e magro, con una borsa da DJ appesa alla spalla, capelli neri arruffati e occhi verdi, grandi e profondi. Aveva le labbra piene, di un rosa per cui molte ragazze avrebbero dato qualsiasi cosa. Dal bordo della maglietta nera, sulla nuca, spuntava il tatuaggio di un sole che sulla pelle chiara pareva quasi risplendere.
A differenza degli altri due, quando si voltò a guardarla, il ragazzo non distolse gli occhi. Il sorriso era forzato, ma lo sguardo era caldo e vivace. La fissò, immobile come una statua, e anche Luce si sentì inchiodata al suolo. Trattenne il respiro. Quegli occhi erano intensi, seducenti e be', disarmanti.
Schiarendosi rumorosamente la gola, la custode strappò il ragazzo al suo sguardo trasognato. Luce arrossì e finse di essere molto occupata a grattarsi la testa.
«Quelli di voi che sanno già tutto sono liberi di andare dopo aver buttato via gli oggetti vietati.» La custode indicò una grossa scatola di cartone sotto un cartello che diceva a grandi lettere nere OGGETTI PROIBITI. «E quando dico liberi, Todd» calò una mano sulla spalla del ragazzo con le lentiggini, facendolo sussultare «intendo obbligati a incontrare le vostre guide.» Puntò il dito contro Luce. «Tu, via la roba vietata e rimani con me.»
I quattro si avvicinarono alla scatola e Luce vide, sconcertata, che i ragazzi cominciavano a svuotarsi le tasche. La ragazza estrasse un
coltellino svizzero rosa da dieci centimetri. Il tipo dagli occhi verdi si separò con una certa riluttanza da una bomboletta di vernice spray e un taglierino. Perfino il povero Todd lasciò cadere nello scatolone parecchie confezioni di fiammiferi e una piccola bomboletta di gas per accendini. Luce si sentì quasi stupida a non avere niente di pericoloso con sé, ma quando vide gli altri frugare nelle tasche e buttare i cellulari nella scatola, rimase a bocca aperta.
Chinandosi in avanti per leggere più da vicino la scritta OGGETTI PROIBITI, notò che cellulari, cercapersone e ogni altro apparecchio di trasmissione e ricezione erano severamente proibiti. Come se non fosse già abbastanza brutto non avere un'auto! Luce strinse con la mano sudata il telefono che teneva in tasca, il suo unico collegamento con il mondo esterno. La custode colse il suo sguardo, e la schiaffeggiò leggermente sulla guancia. «Non svenirmi addosso, piccola, non mi pagano abbastanza per resuscitarti. E poi, ti spetta una telefonata alla settimana nell'atrio principale.» Una telefonata... alla settimana? Ma... Guardò il cellulare un'ultima volta e si accorse che le erano arrivati due messaggi. Sembrava impossibile che fossero gli ultimi. Il primo era di Callie.
Chiama subito! Ti aspetto vicino al tel tutta la notte quindi preparati a vuotare il sacco. E ricorda il mantra che ti ho dato: Ce la farai! Cmq, per quello che importa, mi sa che tutti si sono dimenticati...
Tipico di Callie: il messaggio era così lungo che quello schifo di telefono aveva tagliato le ultime righe. In un certo senso, Luce ne fu quasi sollevata. Non voleva leggere che tutti alla sua vecchia scuola avevano già dimenticato ciò che le era successo, ciò che aveva fatto per approdare in quel posto.
Sospirò e passò al secondo sms. Era di sua madre, che aveva la mania dei messaggi solo da poche settimane, e di sicuro non era al corrente della telefonata settimanale, o non avrebbe mai abbandonato sua figlia lì. Giusto?
Cara, ti pensiamo sempre. Fai la brava e cerca di mangiare abbastanza proteine. Parleremo appena possibile.
Baci, mamma e papà
Luce sospirò. I suoi genitori lo sapevano. Come spiegare altrimenti le loro facce tese quando li aveva salutati fuori da scuola quella mattina, sacca da viaggio in mano? A colazione, aveva cercato di scherzare sul fatto che avrebbe finalmente perso quel tremendo accento del New England che aveva preso alla Dover, ma i suoi non le avevano rivolto nemmeno l'accenno di un sorriso. Luce aveva pensato che fossero ancora arrabbiati. Non strillavano mai, e quando lei perdeva il controllo si limitavano a rispondere con un muro di silenzio. Ora capiva la ragione del loro comportamento: i suoi stavano già soffrendo della perdita di contatti con la loro unica figlia.
«Manca ancora qualcuno...» cantilenò la custode. «Chissà chi è.» Luce riportò di scatto l'attenzione sulla scatola, ora piena fino all'orlo di oggetti che non riusciva nemmeno a riconoscere. Sentiva su di sé gli occhi verdi del ragazzo dai capelli scuri, ma poi si accorse che la stavano fissando tutti. Toccava a lei. Chiuse gli occhi e aprì lentamente la mano: il cellulare cadde sul mucchio con un tonfo triste. Il rumore della solitudine.
Todd e la bambola di plastica Gabbe si avviarono verso la porta riservando a Luce appena un'occhiata, ma il terzo ragazzo si voltò verso la custode.
«Posso informarla io» disse, indicando Luce con un cenno.
«Non fa parte degli accordi» rispose automaticamente la donna, come se si fosse aspettata quello scambio di battute. «Sei uno nuovo, adesso: vuol dire che hai le stesse restrizioni dei nuovi. Sei tornato al via. Se non ti piace, avresti dovuto pensarci due volte prima di infrangere la tua promessa.»
Il ragazzo rimase immobile, inespressivo, mentre la custode spingeva Luce - che si era irrigidita alla parola "promessa" - verso un atrio ingiallito.
«Muoversi» aggiunse, come se nulla fosse. «Letti.» Indicò la finestra
esposta a ovest di un edificio color cenere. Gabbe e Todd iniziarono a camminare strascicando i piedi in quella direzione, e il terzo ragazzo li seguì lentamente, come se raggiungerli fosse l'ultima delle cose che aveva in programma di fare.
Il dormitorio degli studenti era un edificio grigio imponente e squadrato, con porte massicce che non lasciavano trapelare all'esterno alcun segno di vita. C'era una grande targa di pietra in mezzo al prato: Luce l'aveva vista sul sito web della scuola, e ricordava che sopra c'era scritto PAULINE DORMITORY. Al pallido sole del mattino sembrava perfino più brutta di quanto lo fosse nella piatta fotografia in bianco e nero.
La facciata era coperta di muffa nera, visibile perfino da quella distanza. Tutte le finestre erano chiuse da file di spesse sbarre d'acciaio. Luce strizzò gli occhi. Era filo spinato quello in cima al recinto che circondava l'edificio?
La custode consultò una tabella, sfogliando la pratica di Luce. «Stanza 63. Metti la borsa nel mio ufficio insieme a quelle degli altri, per ora. Potrai disfarla nel pomeriggio.»
Luce trascinò la sacca da viaggio rossa verso tre anonimi bauli neri, poi d'istinto cercò il telefono dove in genere si appuntava le cose da ricordare. Ma dopo aver frugato nella tasca vuota, sospirò e cercò di imparare a memoria il numero della stanza.
Continuava a non capire perché non potesse semplicemente stare dai suoi; la casa di Thunderbolt era a meno di mezz'ora dalla Sword & Cross. Era stato così bello tornare a Savannah, dove, come diceva sempre sua madre, perfino il vento soffiava pigro. I ritmi dolci e lenti della Georgia le erano molto più congeniali del New England.
La Sword & Cross non somigliava affatto a Savannah, però. Non somigliava a niente, tranne che a un posto senza vita e senza colore dove era stata mandata per decisione del tribunale. Aveva ascoltato di nascosto suo padre parlare al telefono con il preside, annuendo in quel suo modo svanito da professore di biologia, per poi dire: "Sì, sì, forse la cosa migliore per lei è essere costantemente sorvegliata. No, no, non intendiamo interferire con il vostro metodo."
Era chiaro che suo padre non sapeva come sarebbe stata
sorvegliata la sua unica figlia. Quel posto sembrava un carcere di massima sicurezza.
«E cosa diceva di quelle... come le ha chiamate? Spie?» chiese Luce alla custode, già pronta a concludere il giro.
«Spie» ripetè l'altra, indicando con un cenno un piccolo dispositivo appeso al soffitto: un obbiettivo con una lucina rossa intermittente. All'inizio Luce non l'aveva notato, ma non appena lo vide, si accorse che ce n'erano ovunque.
«Telecamere?»
«Molto brava» rispose la custode, con la voce piena di condiscendenza. «Ve le segnaliamo per avvertirvi. Vi tengono d'occhio sempre, dappertutto. Quindi non andare fuori di testa... se ci riesci.»
Ogni volta che qualcuno le parlava come se fosse una psicopatica, Luce si convinceva sempre un po' di più di esserlo davvero.
I ricordi l'avevano tormentata per tutta l'estate, in sogno e nei rari momenti in cui i suoi genitori la lasciavano sola. Era successo qualcosa in quel bungalow, e tutti (lei compresa) morivano dalla voglia di sapere che cosa. La polizia, il giudice, l'assistente sociale... tutti avevano cercato di cavarle fuori la verità, ma Luce ne sapeva quanto loro. Lei e Trevor si erano divertiti per tutta la sera, inseguendosi fino alla fila di casette in riva al lago, lontani dagli altri invitati alla festa. Luce aveva cercato di spiegare che era stata una delle più belle serate della sua vita, finché non si era trasformata nella peggiore.
Aveva rivissuto quella serata ancora e ancora - la risata di Trevor nelle orecchie, le sue mani che le cingevano la vita - cercando di conciliare i ricordi con il fatto che il suo istinto le diceva di essere innocente.
Ma ora, tutte le regole della Sword & Cross parevano andare contro quella convinzione, sembravano suggerire che lei era davvero pericolosa e che aveva davvero bisogno di essere tenuta sotto controllo.
Luce sentì una stretta salda sulla spalla.
«Ascolta» disse la custode. «Se può farti sentire meglio, ci sono casi ben peggiori, qui.»
Era il primo gesto di umanità che mostrava nei suoi confronti, e Luce era certa che fosse dettato da buone intenzioni. Ma... l'avevano mandata laggiù a causa della morte sospetta del ragazzo di cui era innamorata e comunque c'erano "casi ben peggiori"? Luce si chiese con che cosa avessero a che fare di preciso alla Sword & Cross.
«Okay, fine dell'orientamento» disse la custode. «Ora devi cavartela da sola. Ecco una mappa per trovare qualunque cosa ti serva.» Le consegnò la fotocopia di una rozza cartina disegnata a mano, poi diede un'occhiata all'orologio. «Manca ancora un'ora alla tua prima lezione, ma ho già abbastanza gatte da pelare, quindi» agitò la mano «sparisci. E non dimenticare» aggiunse, indicando le telecamere un'ultima volta, «le spie ti tengono d'occhio.»
Prima che Luce potesse ribattere, comparve una ragazza magra e bruna, che le agitò le lunghe dita davanti al viso.
«Ooooooh» cantilenò cupa, danzando in cerchio intorno a Luce. «Le spie ti tengono d'ooooocchio!»
«Vattene, Arriane, o ti faccio lobotomizzare» replicò la custode, lasciandosi però sfuggire un sorriso fugace ma sincero, dal quale si capiva che per quella ragazza nutriva una sorta di ruvido affetto.
E si capiva anche che Arriane non lo ricambiava. Le fece un gesto osceno, poi fissò Luce con aria di sfida.
«E con questo» ribatté la custode, scribacchiando furiosa sul suo taccuino, «ti sei appena guadagnata il compito di portare a spasso Miss Sorriso oggi.»
Indicò Luce che, vestita di nero da capo a piedi, tutto sembrava tranne che sorridente. Nella sezione "Norme per l'abbigliamento" il sito della scuola assicurava che, fino a quando si fossero comportati bene, gli studenti erano liberi di vestirsi come volevano, con solo due piccole limitazioni: stile sobrio e colore nero. E la chiamavano libertà...
La maglia a lupetto troppo grande che sua madre le aveva imposto quella mattina le nascondeva le forme, e perfino la sua cosa più bella era scomparsa: i folti capelli neri, di solito lunghi fino alla
vita, erano stati rasati. L'incendio della casetta le aveva bruciacchiato i capelli fino alla radice in alcuni punti, e dopo il lungo, silenzioso viaggio di ritorno a casa da Dover, sua madre l'aveva messa nella vasca da bagno, aveva preso il rasoio elettrico del marito e l'aveva rasata senza dire una parola. Durante l'estate i capelli le erano ricresciuti un po', ma quelle che una volta erano onde invidiabili spuntavano ora in bizzarri ciuffetti appena sotto le orecchie.
Arriane la esaminò, tamburellandosi con un dito le labbra pallide. «Perfetto» disse, prendendo Luce sottobraccio. «Avevo proprio bisogno di una schiava nuova.»
La porta dell'atrio si aprì, ed entrò il ragazzo dagli occhi verdi. Scosse il capo e disse a Luce: «Qui non si fanno problemi a perquisirti. Quindi, se hai altra roba» alzò un sopracciglio e buttò una manciata di oggetti disparati nella scatola, «risparmiati il fastidio.»
Alle spalle di Luce, Arriane ridacchiò. Il ragazzo alzò la testa di scatto, e quando vide Arriane aprì la bocca, ma poi la richiuse, incerto.
«Arriane» disse in tono neutro.
«Cam» replicò lei.
«Lo conosci?» sussurrò Luce, chiedendosi se anche negli istituti correzionali si formassero lo stesso tipo di gruppetti che c'erano nelle prep school come Dover.
«Non ricordarmelo» rispose Arriane trascinando Luce nel mattino grigio e nebbioso.
Sul retro, l'edificio principale dava su un marciapiede malmesso che costeggiava un campo incolto. L'erba era così alta da farlo sembrare più un terreno in vendita che uno spazio comune, ma un tabellone sbiadito e una serie di tribune di legno lasciavano intendere il contrario.
Oltre il prato c'erano quattro edifici dall'aria severa: il palazzo color cenere del dormitorio all'estrema sinistra, un'enorme, brutta chiesa all'estrema destra e nel mezzo due costruzioni massicce che, si disse Luce, dovevano essere le aule.
Ecco tutto. Il suo mondo era ridotto a quel triste panorama.
Arriane svoltò subito a destra e guidò Luce verso il campo, facendola sedere su uno degli spalti fradici.
A Dover nello spazio comune c'erano sempre studenti della Ivy League alle prese con gli allenamenti, e Luce aveva sistematicamente evitato di andarci. Ma quel campo vuoto, con i pali delle mete arrugginiti e deformati, raccontava una storia molto diversa, che Luce faceva fatica a immaginare. Tre avvoltoi collorosso scesero in picchiata, e un vento triste agitò i rami nudi delle querce. Luce rabbrividì e infilò il mento nel collo del lupetto.
«Allooooora» disse Arriane. «Hai conosciuto Randy.»
«Avevo capito che si chiamasse Cam.»
«Non stiamo parlando di lui» ribatté Arriane, brusca. «Ma della cosa là dentro.» Arriane indicò con un cenno l'ufficio dove avevano lasciato la custode, davanti alla tivù. «Allora, maschio o femmina?»
«Ehm, femmina?» azzardò Luce. «È un test?»
Arriane sorrise. «Il primo di una lunga serie. E tu l'hai passato. Almeno credo. Il sesso della maggior parte del corpo insegnante è materia di dibattito in tutta la scuola. Non preoccuparti, entrerai anche tu nel giro.»
Luce pensò che Arriane stesse scherzando... il che era fantastico. Ma lì era tutto così diverso dalla Dover. Nella sua vecchia scuola, i futuri senatori, con le loro cravatte verdi e i capelli lisciati con il gel, in pratica scivolavano lungo i corridoi in quel signorile silenzio con cui il denaro sembra ammantare ogni cosa.
Molto spesso gli altri studenti di Dover le scoccavano occhiate del tipo "non toccare le pareti con quelle mani". Cercò di immaginare Arriane nella sua vecchia scuola: a perdere tempo sugli spalti, facendo battute volgari con la sua voce acuta. Cercò di immaginare che cosa avrebbe pensato Callie di lei. Non c'era nessuno come Arriane alla Dover Prep.
«Okay, sputa il rospo» ordinò Arriane. Si lasciò cadere sul sedile più alto, fece cenno a Luce di seguirla e chiese: «Cos'hai fatto per finire qui?»
L'aveva detto in tono scherzoso, ma Luce d'improvviso sentì che
doveva sedersi. Era assurdo, ma aveva quasi sperato di superare il primo giorno di scuola senza che il passato l'aggredisse, strappandole via il suo fragile strato di calma. Ovviamente, però, gli altri volevano sapere.
Sentiva il sangue pulsare nelle tempie. Succedeva ogni volta che provava a ripensarci, a ripensare davvero a quella notte. Non aveva mai smesso di sentirsi in colpa per quello che era successo a Trevor, ma aveva anche cercato con tutte le forze di non farsi risucchiare dalle ombre, l'unica cosa che per il momento ricordava dell'incidente. Quelle sagome oscure e indefinibili di cui non avrebbe mai parlato con nessuno.
Aveva cominciato a raccontare a Trevor della strana presenza che sentiva, delle ombre informi che incombevano su di loro, minacciando di rovinare la loro serata perfetta. Ma ormai a quel punto era troppo tardi. Trevor era morto, il suo corpo ustionato a tal punto da non essere più riconoscibile, e Luce era... era... colpevole?
Nessuno sapeva delle sagome che vedeva a volte nelle tenebre. Venivano sempre da lei. Andavano e venivano da così tanto tempo che Luce non riusciva più a ricordarsi la prima volta in cui le aveva viste. Si ricordava però di quando aveva capito che le ombre non venivano per tutti, ma solo per lei.
Aveva sette anni, ed era andata in vacanza con i suoi a Hilton Head. Sua madre e suo padre l'avevano portata a fare una gita in barca. Era quasi il tramonto quando le ombre avevano cominciato a riversarsi sull'acqua; lei si era voltata verso suo padre e aveva detto: "Cosa fai quando arrivano, papà? Come fai a non aver paura dei mostri?"
Non c'era nessun mostro, le avevano assicurato i genitori, ma Luce aveva continuato a insistere che sentiva una presenza oscura e indefinita, guadagnandosi così diverse visite dall'oculista e un paio di occhiali, a cui si aggiunsero alcuni appuntamenti dall'otorinolaringoiatra quando commise l'errore di descrivere il roco sibilo che a volte producevano le ombre, e infine la psicoterapia, ancora psicoterapia e gli psicofarmaci.
Ma niente era mai riuscito a scacciarle.
Quando compì quattordici anni, Luce si rifiutò di prendere le medicine. Fu allora che trovarono il dottor Sanford, e anche la Dover School. Volarono nel New Hampshire, e suo padre guidò l'auto a noleggio lungo una strada piena di curve fino a Shady Hollows, una tenuta in cima a una collina. Luce si ritrovò davanti a un uomo in camice da laboratorio e si sentì chiedere se aveva ancora le sue "visioni". I suoi le tenevano la mano: avevano i palmi sudati, e le fronti corrucciate per la paura che la loro piccola avesse qualcosa che non andava.
Nessuno le aveva spiegato che, se non diceva al dottor Sanford ciò che tutti volevano sentire, avrebbe rivisto Shady Hollows ancora molte volte. Mentì e si comportò normalmente; le fu permesso di iscriversi alla Dover e di vedere il dottor Sanford solo due volte al mese.
Luce ebbe il via libera a smettere di prendere quelle orribili pillole non appena cominciò a fingere di non vedere più le ombre. Ma non aveva il potere di non farle più apparire. Si limitò a evitare a tutti i costi i luoghi dove in passato erano venute per lei: fitte foreste, acque oscure. Sapeva che il loro arrivo era accompagnato da un freddo intenso sotto pelle, una sensazione nauseante che non somigliava a nessun'altra.
Luce si mise a cavalcioni sugli spalti e si strinse le tempie con il pollice e il medio. Se voleva uscire indenne da quel primo giorno doveva relegare il passato nei recessi della sua mente. Lei per prima non sopportava di scandagliare i ricordi di quella notte, e quindi per niente al mondo avrebbe spifferato i particolari macabri a una sconosciuta stramba e fuori di testa.
Invece di rispondere si volse verso Arriane, che se ne stava stesa sulla gradinata, con un enorme paio di occhiali scuri a coprirle buona parte del viso. Luce non poteva esserne certa, ma pensò che anche Arriane doveva averla fissata, perché dopo un secondo si alzò di scatto e le sorrise.
«Tagliami i capelli come i tuoi» disse.
«Cosa?» reagì Luce. «I tuoi capelli sono bellissimi!»
Era vero: Arriane aveva le ciocche lunghe e folte di cui Luce
sentiva disperatamente la mancanza. I suoi riccioli neri scintillavano al sole, appena screziati di rosso. Luce si sistemò i capelli dietro le orecchie, anche se non erano ancora abbastanza da lunghi e ricadevano sempre davanti.
«E chi se ne frega» ribatté Arriane. «I tuoi sono sexy, aggressivi. E li voglio così anch'io.»
«Oh, ehm, okay» disse Luce. Era un complimento? Non sapeva se sentirsi lusingata o irritata da come Arriane sembrava dare per scontato di poter avere tutto ciò che voleva, anche se apparteneva a qualcun altro. «Dove prendiamo...»
«Ta-da!» Arriane cercò nella borsa e tirò fuori il coltello svizzero rosa che Gabbe aveva buttato nella scatola degli Oggetti Proibiti. «Be'?» fece, guardando Luce. «Io metto sempre le mani sugli scarti dei nuovi studenti. È l'unica cosa che mi fa sopportare l'internamento... cioè... il campo estivo.»
«Tu hai passato tutta l'estate... qui?» disse Luce con un sussulto.
«Ah! Una vera novellina. Magari ti aspettavi anche qualche giorno di vacanza in primavera.» Tirò a Luce il coltello svizzero. «Non ce ne andiamo da questo inferno. Mai. Ora taglia.»
«E le spie?» domandò Luce guardandosi intorno con il coltello in mano. Probabilmente c'erano telecamere anche lì fuori.
Arriane scosse il capo. «Mi rifiuto di essere amica di una mammoletta. Ce la fai o no?»
Luce annuì.
«E non dirmi che non hai mai tagliato i capelli a nessuno prima d'ora.» Arriane riprese il coltellino svizzero, estrasse le forbici e glielo porse di nuovo. «E la prossima cosa che voglio sentirti dire è: "Stai benissimo".»
Dopo averla fatta sedere nella vasca da bagno come se fosse il salone di un parrucchiere, la madre di Luce aveva raccolto ciò che restava dei suoi lunghi capelli in una coda disordinata, che poi aveva tagliato. Luce era certa che dovesse esserci un metodo migliore, ma avendo sempre evitato di tagliarsi i capelli conosceva solo il metodo della coda mozzata. Raccolse i capelli di Arriane, li legò con un
elastico di quelli che portava al polso, impugnò con forza le forbici e cominciò.
La coda cadde ai suoi piedi. Arriane trattenne il fiato e si voltò di scatto. La raccolse e la guardò contro sole. A Luce si strinse il cuore: soffriva ancora al pensiero dei capelli perduti, e di tutte le altre perdite che essi rappresentavano. Ma un lieve sorriso affiorò sulle labbra di Arriane. La ragazza passò le dita nella coda, una volta sola, poi la mise in borsa.
«Pazzesco» disse. «Va' avanti.»
«Arriane» sussurrò Luce, prima di riuscire a trattenersi. «Hai il collo tutto...»
«... pieno di cicatrici?» completò Arriane. «Puoi dirlo forte.»
La pelle del collo di Arriane, dall'orecchio sinistro fino alla clavicola, era segnata, a chiazze, lucida. Luce ripensò a Trevor, e a quelle orribili fotografie. Perfino i suoi genitori avevano evitato il suo sguardo dopo averle viste. E adesso le costava molta fatica guardare Arriane.
La ragazza prese la mano di Luce e se la premette sul collo. Era caldo e freddo allo stesso tempo. Morbido e ruvido.
«Non mi fa paura» disse. «A te sì?»
«No» rispose Luce, anche se desiderava soltanto che Arriane togliesse la mano per poter allontanare la sua. Era stata così, la pelle di Trevor? Il pensiero bastò a farle torcere lo stomaco.
«Hai paura di chi sei veramente, Luce?»
«No» rispose di nuovo lei, d'impulso. Doveva essere evidente che stava mentendo. Chiuse gli occhi. Luce voleva solo poter ricominciare da capo, voleva un posto dove la gente non la guardasse come la stava guardando Arriane in quel momento. Ai cancelli della scuola quella mattina, quando suo padre le aveva sussurrato all'orecchio il motto della famiglia Price - "I Price non crollano mai" - le era sembrato possibile, ma adesso si sentiva abbattuta, scoperta. Tolse la mano. «Com'è successo?» domandò, con lo sguardo rivolto verso il basso.
«Quando ti sei chiusa a riccio sul perché ti trovi qui io non ti sono
stata addosso» rispose Arriane, aggrottando le sopracciglia.
Luce annuì.
Arriane indicò le forbici. «Aggiustali dietro, okay? Fammi bella. Fammi uguale a te.»
Anche con lo stesso taglio Arriane somigliava comunque a una versione denutrita di Luce. Mentre lei cercava di sistemare la prima acconciatura che avesse mai fatto in vita sua, Arriane si immerse nelle complessità della vita alla Sword & Cross.
«Quel palazzo laggiù è l'Augustine. È dove si tengono i cosiddetti Eventi del mercoledì sera. E le lezioni.» Indicò una costruzione color denti ingialliti, due edifici più a destra del dormitorio. Sembrava progettato dallo stesso sadico che aveva costruito il Pauline. Era tetro e squadrato, una specie di fortezza, protetto dallo stesso filo spinato e dalle stesse sbarre alle finestre. Una nebbia grigia innaturale avvolgeva le mura come muschio: era impossibile anche solo intuire se lì ci fosse qualcuno.
«Ti avverto» proseguì Arriane. «Odierai le lezioni. Non saresti umana altrimenti.»
«Perché? Cos'hanno che non va?» domandò Luce. Forse Arriane non amava la scuola in generale. Con le unghie smaltate di nero, la matita nera sugli occhi e la borsa nera che sembrava grande abbastanza solo per il coltellino svizzero, non aveva proprio l'aria della secchiona.
«Sono senz'anima» rispose Arriane. «Peggio, ti strappano via la tua. Degli ottanta ragazzi che sono qui, direi che sono rimaste solo tre anime.» Alzò gli occhi al cielo. «Ben nascoste, comunque...»
Non era una bella prospettiva. Ma fu qualcos'altro a colpire Luce. «Aspetta, ci sono solo ottanta ragazzi in tutta la scuola?» L'estate prima di andare a Dover, Luce aveva studiato il voluminoso manuale per i nuovi iscritti, imparando a memoria le statistiche. Ma tutto quello che aveva scoperto finora sulla Sword & Cross dimostrava che lei era arrivata del tutto impreparata al primo incontro con l'istituto correzionale.
Arriane annuì, e Luce tagliò per errore una ciocca di troppo. Per fortuna Arriane non se ne sarebbe accorta... o forse avrebbe pensato che faceva tendenza.Otto classi, dieci ragazzi per classe. Vieni subito a sapere il peggio di tutti» disse. «E viceversa.»
«Immagino» commentò Luce mordendosi il labbro. Arriane scherzava, ma Luce si domandò se la sua nuova amica sarebbe rimasta lì seduta con quel sorrisetto compiaciuto se avesse conosciuto il suo passato. Più a lungo lo teneva nascosto, meglio era.
«E ti consiglio di stare alla larga dai casi gravi.»
«Casi gravi?»
«Quelli con il braccialetto elettronico» rispose Arriane. «Più o meno un terzo degli studenti.»
«Sarebbero quelli che...»
«Non ti ci immischiare. Fidati.»
«Be', ma cosa fanno?»
Luce voleva tener segreto il suo passato, ma non le piaceva che Arriane la trattasse come una sempliciotta. In fondo, quello che aveva fatto, almeno a sentire che cosa raccontavano alla Dover, era senza dubbio peggio di qualsiasi cosa potevano aver combinato i ragazzi della Sword & Cross. Ma se non fosse stato così? Dopotutto, non sapeva quasi niente di quelle persone e di quel posto. La possibilità che ci fossero studenti con un passato più oscuro del suo le smosse una paura fredda e grigia in fondo allo stomaco.
«Oh, le solite cose» cantilenò Arriane. «Istigazione e complicità in atti di terrorismo. Genitori fatti a pezzi e cucinati allo spiedo.» Si voltò e le strizzò l'occhio.
«Piantala» ribatté Luce.
«Non sto scherzando. I fuori di testa vengono sottoposti a restrizioni più severe di noi sfigati. Li chiamiamo gli ingabbiati.»
Luce scoppiò a ridere per il tono teatrale che aveva usato Arriane.
«Finito» disse, aggiustandole i capelli con le dita per dar loro più volume. Le stavano davvero bene.
«Cara» ribatté Arriane. Si voltò verso Luce e quando si passò le dita fra i capelli le maniche del pullover ricaddero mostrando per un
attimo una fascia nera con file di borchie argentate, e sull'altro polso un braccialetto dall'aria più... meccanica. Arriane si accorse che Luce l'aveva visto e alzò le sopracciglia con aria diabolica.
«Te l'avevo detto» sibilò. «Pazzi maledetti.» Sorrise. «Dai, finiamo il giro.»
Luce non aveva molta scelta. Scese dagli spalti e seguì Arriane, chinandosi quando uno degli avvoltoi collorosso si abbassò pericolosamente. Arriane parve non accorgersene, e indicò una chiesa coperta da licheni sulla destra del prato.
«Da quella parte, potete ammirare la nostra modernissima palestra» disse, con voce impostata da guida turistica. «Certo, a un occhio distratto può sembrare una chiesa. E infatti lo era. Qui alla Sword & Cross ci troviamo in una specie di Inferno architettonico di seconda mano. Qualche anno fa uno strizzacervelli malato di aerobica è venuto qui a pontificare su quanto i giovani ipermedicalizzati rovinino la società. Ha donato alla scuola una montagna di soldi perché trasformassero la chiesa in una palestra. Ora le Potenze del cielo ritengono che possiamo risolvere le nostre "frustrazioni" in un "modo più naturale e produttivo".»
Luce grugnì. Aveva sempre detestato fare ginnastica.
«Oh, mia compagna di sventura» la compatì Arriane. «Diante, l'insegnante di educazione fisica, è il Male.»
Luce si mise a correre per tenere il passo di Arriane, e intanto si diede un'occhiata intorno. A Dover il parco era tenuto in modo splendido, ben curato e con gli alberi potati alla perfezione. Quello della Sword & Cross sembrava una palude. C'erano salici piangenti con rami lunghi fino a terra, tutti aggrovigliati, il kudzu cresceva sulle mura, e ogni tre passi si finiva in una pozzanghera.
E non era solo quello che si vedeva. L'umidità si attaccava ai polmoni a ogni respiro. Alla Sword & Cross respirare era come affondare nelle sabbie mobili.
«Pare che gli architetti non siano riusciti a mettersi d'accordo mentre discutevano su come attualizzare lo stile delle vecchie accademie militari. Il risultato è una scuola a metà tra un penitenziario e una sala delle torture medioevale. E senza
giardiniere.» Arriane scrollò un po' di melma dagli anfibi. «Disgustoso. Ah, ecco il cimitero.»
Luce guardò nella direzione che Arriane le indicava, verso l'estrema sinistra del parco, subito dopo il dormitorio. Un manto di nebbia ancora più spesso incombeva su una zona cintata da mura. Era circondata su tre lati da un fitto bosco di querce. Non si riusciva a vedere oltre perché il cimitero sembrava quasi sprofondare nel terreno, ma c'era puzza di marcio e si sentivano le cicale frinire fra gli alberi. Per un attimo Luce credette di vedere il guizzo oscuro delle ombre... ma quando batté le palpebre, erano già scomparse.
«Quello è un cimitero?»
«Già. Ai tempi della Guerra Civile questa era un'accademia militare, e là seppellivano i morti. Fa davvero venire i brividi. E Osannai» continuò Arriane, calcando in modo esagerato un finto accento del sud. «La puzza arriva fino all'alto dei Cieli.» Le strizzò l'occhio. «Ci passiamo un sacco di tempo da quelle parti.»
Luce la guardò per capire se stava scherzando. Arriane si limitò a scrollare le spalle.
«Okay, è successo un'unica volta. E solo dopo un festino a base di pasticche.»
Festini a base di pasticche... anche Luce poteva dire di averne visti un paio.
«Ah! » Arriane scoppiò a ridere. «Ho visto una luce! Allora c'è qualcuno in casa. Be', mia cara, sarai anche andata alle superfeste del liceo, ma non hai mai visto quelle dei ragazzi di un correzionale.»
«Che differenza c'è?» domandò Luce sorvolando sul fatto che a Dover non era mai stata a una "superfesta".
«Vedrai.» Arriane tacque e si voltò verso Luce. «Verrai da me stasera, vero? Verrai a trovarmi?» A sorpresa, prese la mano di Luce. «Promesso?»
«Ma non mi avevi detto di stare lontana dai casi gravi?» scherzò lei.
«Regola numero due: non starmi a sentire!» Arriane scoppiò a ridere scuotendo la testa. «Sono una pazza patentata!»
Ricominciò a correre, con Luce alle calcagna.
«Aspetta, ma qual era la regola numero uno?»
«Tieni il passo!»Girato l'angolo dell'edificio color cenere, Arriane si fermò. «Sangue freddo» disse.
«Sangue freddo» ripetè Luce.
Tutti gli studenti erano assiepati attorno agli alberi divorati dal kudzu fuori dal padiglione Augustine. Nessuno pareva proprio felice di star lì fuori, ma allo stesso tempo nessuno sembrava pronto a entrare.
A Dover non c'era un codice d'abbigliamento, quindi Luce non era abituata all'effetto uniforme. Eppure, sebbene tutti i ragazzi indossassero gli stessi jeans neri, lupetto nero e maglione nero sulle spalle o legato in vita, ognuno li indossava in modo diverso.
Un gruppetto di ragazze tatuate stavano in circolo a braccia conserte. Avevano braccialetti fino al gomito e bandane nere che a Luce ricordarono un film su una banda di motocicliste che aveva visto una volta. L'aveva affittato perché si era chiesta: cosa c'è di meglio di una banda di motocicliste? Una delle ragazze la fissò a sua volta, e lo sguardo che le scoccò con gli occhi da gatto truccati di nero bastò a Luce per distogliere subito il suo.
Un ragazzo e una ragazza che si tenevano per mano avevano un teschio di paillettes con le ossa incrociate cucito sui maglioni neri. A ogni momento uno dei due attirava a sé l'altro per baciarlo sulla tempia, sull'orecchio, sull'occhio. Quando si abbracciarono Luce vide che avevano tutti e due al polso il braccialetto elettronico di sorveglianza. Avevano l'aria un po' rozza, ma era evidente che si amavano molto. Ogni volta che vedeva scintillare i piercing alla lingua, Luce si sentiva stringere il cuore di solitudine.
Dietro gli innamorati, c'era un gruppo di ragazzi biondi,
appoggiati contro il muro. Nonostante il caldo, indossavano tutti il pullover, con sotto candide camicie oxford con il colletto alzato. I pantaloni neri cadevano perfettamente sulle scarpe lucide. Di tutti gli studenti erano quelli che più somigliavano ai suoi ex compagni di Dover, ma a uno sguardo più attento si capiva che erano molto diversi dai ragazzi che lei aveva conosciuto, i ragazzi come Trevor.
Solo per il fatto di essere in gruppo, trasmettevano una sorta di durezza, che si rifletteva nel loro sguardo. Era difficile da spiegare, ma d'un tratto Luce si rese conto che in quella scuola tutti avevano un passato, proprio come lei. Tutti avevano segreti che non volevano condividere. Non riusciva a capire, però, se questa consapevolezza la faceva sentire più o meno isolata.
Arriane si accorse che Luce stava osservando gli altri ragazzi.
«Facciamo tutti quello che possiamo per arrivare alla fine della giornata» disse scrollando le spalle. «Ma in caso non ti fossi accorta degli avvoltoi che volano in circolo, questo posto puzza di morte.» Si sedette su una panchina sotto un salice e batté con la mano accanto a sé per invitare Luce a fare altrettanto.
Luce spazzò dalla panchina una manciata di foglie umide e marce, e si sedette. Fu allora che notò un'altra violazione al codice dell'abbigliamento.
Una violazione molto attraente.
Portava una sciarpa rosso acceso. Fuori non faceva affatto freddo, eppure indossava un giubbotto nero di pelle da motociclista sul pullover nero. Forse era perché la sua era l'unica macchia di colore in tutto il parco, ma Luce non riusciva a distogliere lo sguardo. Al confronto tutto il resto impallidiva talmente che per un lungo istante Luce dimenticò dove si trovava.
Contemplò i suoi capelli color oro intenso e l'abbronzatura; gli zigomi alti, gli occhiali neri, le labbra morbide. In tutti i film che Luce aveva visto, in tutti i libri che aveva letto l'oggetto dell'amore era di una bellezza sconvolgente... tranne che per un piccolo difetto. Il dente spezzato, i capelli ribelli, una voglia sulla guancia sinistra. Lei sapeva il perché: se l'eroe è troppo perfetto, rischia di essere inavvicinabile. Avvicinabile o meno, Luce aveva sempre avuto un
debole per il sublime. E il ragazzo davanti a lei lo era al cento per cento.
Si appoggiò contro il muro, a braccia incrociate. E per un istante Luce ebbe la visione di se stessa avvolta da quelle braccia. Scosse la testa, ma la visione rimase così chiara che per poco non si alzò per raggiungerlo.
No. Era assurdo. Era un impulso folle perfino in una scuola di matti, si disse Luce. E poi, non lo conosceva nemmeno.
Stava parlando con un ragazzo più basso con i dread e un sorriso a trentadue denti. Ridevano tutti e due tanto forte e di gusto che Luce provò una strana gelosia. Cercò di ricordarsi da quanto tempo non rideva così, da quanto tempo non rideva davvero.
«Quello è Daniel Grigori» disse Arriane chinandosi verso di lei, come se le avesse letto nel pensiero. «Mi sa che ha attirato l'attenzione di qualcuno...»
«"Attirato l'attenzione" è dire poco» convenne Luce, pensando con imbarazzo alla figura che doveva avere appena fatto con Arriane.
«Be', se ti piace il genere.»
«E come potrebbe non piacere?» ribatté Luce, senza riuscire a trattenersi.
«Il suo amico si chiama Roland» continuò Arriane, indicando con un cenno il ragazzo con i dread. «È forte. È uno di quelli che sa procurarsi le cose, mi spiego?»
Mica tanto, pensò Luce mordendosi il labbro. «Cose di che tipo?»
Arriane scrollò le spalle, e tagliò via un filo che pendeva da uno strappo nei jeans con il coltellino svizzero. «Cose e basta. Del tipo chiedi-e-ti-sarà-dato.»
«E Daniel?» domandò Luce. «Come è finito qui?»
«Oh, sei una che non molla, eh?» Arriane scoppiò a ridere, poi si schiarì la voce. «Nessuno la sa. Daniel coltiva alla perfezione la sua immagine di uomo del mistero. Potrebbe essere il tipico stronzo da correzionale.»
«Ne so qualcosa di stronzi» ribatté Luce, ma si pentì subito di
averlo detto. Dopo quello che era capitato a Trevor - qualunque cosa fosse - lei era l'ultima a poter giudicare. Ma soprattutto, le rare volte in cui aveva anche solo accennato a quella notte, la coltre cangiante delle ombre era tornata da lei quasi come se fosse ancora in riva al lago.
Guardò di nuovo Daniel. Lui si tolse gli occhiali e li infilò nel giubbotto, poi si voltò verso di lei.
I loro sguardi si incrociarono. Luce lo vide spalancare gli occhi e poi socchiuderli, come se fosse sorpreso. Ma no, era qualcosa di più della semplice sorpresa. Quando gli occhi di Daniel catturarono i suoi, Luce rimase senza fiato. Era sicura di averlo già visto da qualche parte, anche se non sapeva dire dove.
Eppure, era impossibile. Era impossibile che si fosse dimenticata di aver conosciuto un ragazzo così. Era impossibile che si fosse dimenticata di essersi sentita tanto scossa quanto lo era adesso.
Daniel le sorrise, e solo allora Luce si rese conto che non avevano mai smesso di guardarsi. Un fiotto di calore la attraversò e la ragazza dovette aggrapparsi alla panchina per sostenersi. Sentì le sue labbra scattare a loro volta in un sorriso, ma poi Daniel alzò una mano.
E le mostrò il medio.
Luce rimase senza fiato e abbassò lo sguardo.
«Che c'è?» chiese Arriane, che evidentemente non si era accorta di niente. «Non importa, non c'è tempo. Ecco la campanella.»
La campanella suonò come al suo comando, e tutti gli studenti si avviarono lenti verso l'edificio. Arriane la trascinò per un braccio senza smettere di darle indicazioni su dove incontrarsi, e quando. Ma Luce era ancora sotto shock per essere stata mandata a farsi fottere da un perfetto sconosciuto. Il suo delirio momentaneo su Daniel era svanito e l'unica cosa che voleva sapere era: che problemi aveva quel tizio?
Appena prima di immergersi nella sua prima lezione trovò il coraggio di voltarsi. Il viso di Daniel non tradiva alcuna espressione, ma non c'erano dubbi: la stava seguendo con lo sguardo.
 
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naomii
view post Posted on 27/7/2011, 23:38




ciao a tutti
 
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Hernione1
view post Posted on 22/4/2014, 00:26




Bellissimo... Peccato ce nn lo possa leggere... Mio padre mi ha preso tutta la sag (appena comprata) e mi ha detto di leggerla solo dopo aver fatto tt i compiti... Oddio!
Potreste mettere anke il secondo,terzo.... Capitoli?
Grazie Hernione1
 
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2 replies since 4/1/2011, 22:23   1817 views
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